La questione portata all’attenzione dei Giudici riguardava il caso di una erede di un pubblico dipendente che aveva agito in giudizio al fine di veder riconosciuta la natura professionale della malattia del de cuius, causata dalla condotta vessatoria posta in essere dall’ente pubblico di cui egli era stato dipendente.
I giudici di primo e secondo grado avevano respinto la richiesta avanzata dalla ricorrente, ritenendo che la fattispecie del mobbing non rientrasse tra le malattie tabellate da parte dell’INAIL, né costituisse malattia la cui insorgenza era correlata specificamente ad un rischio tipizzato nelle tabelle e insito nello svolgimento della mansione da parte del dipendente.
La Corte d’Appello in particolare sottolineava che, per poter essere indennizzata, occorre che la malattia insorga “nell’esercizio e a causa delle lavorazioni”, richiedendo quindi necessariamente un collegamento causale specifico all’attività in concreto svolta dall’assicurato, non assumendo invece alcun rilievo, a tal fine, l’organizzazione del lavoro.
In questo senso, ricorda la Corte, l’evoluzione interpretativa operata dalla giurisprudenza ha consentito via via di estendere l’ambito di tutela, ad esempio riconoscendo protezione assicurativa al dipendente colpito da patologia in quanto esposto al fumo passivo di sigaretta sul luogo di lavoro, oppure ancora al lavoratore colpito da infortunio in itinere, nel quale l’evento è conseguenza dell’esposizione a rischi generici (quale, in ipotesi, l’incidente stradale) del tutto estranei rispetto ai rischi specificamente collegati alla mansione svolta dal lavoratore.
Peraltro, tale posizione giurisprudenziale è stata da tempo fatta propria da una disposizione di legge, l’art. 10 comma 4 della Legge 2000 n. 38, il quale espressamente prevede che “sono considerate malattie professionali anche quelle non comprese nelle tabelle di cui al comma 3 delle quali il lavoratore dimostri l’origine professionale”.
E diversamente non potrebbe essere, dato che, come riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale, oggetto di tutela non è il rischio di infortunio o di malattia professionale “bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela”.
In conclusione, a parere della Corte non può esservi dubbio in merito alla possibilità di veder riconosciuta la tutela assicurativa della malattia costituita dalla condotta mobbizzante subìta dal lavoratore sul luogo di lavoro, fermo restando, in ogni caso, l’onere della prova a carico di quest’ultimo rispetto alla riconducibilità della malattia alla condotta del datore di lavoro.
Specifichiamo che il mobbing sul lavoro consiste in un insieme di comportamenti violenti perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso.
Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob”, che significa una “folla grande e disordinata”, soprattutto “dedita al vandalismo e alle sommosse”.
Il termine venne usato per la primo volta negli anni settanta dall’etologo Lorenz per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali che circondano in gruppo un proprio simile e lo assalgono rumorosamente per allontanarlo dal branco.
La pratica del mobbing, consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica, con il fine di indurre la vittima ad abbandonare il posto di lavoro, anziché ricorrere al licenziamento.
Sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, i continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, oppure l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata o, l’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet).
Per poter parlare di mobbing sul lavoro, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, nonché causa di una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.
Mobbing , tipologie
Esistono diversi tipi di mobbing, ecco qui di seguito alcuni esempi e tipologie:
• Mobbing dal basso o down-up: Il mobber è in una posizione inferiore rispetto a quella della vittima. Accade quando l’autorità di un capo viene messa in discussione da uno o più sottoposti, in una sorta di ammutinamento professionale generalizzato. I casi di mobbing dal basso sono comunque abbastanza rari, in Italia la percentuale è minore del 10%.
• Mobbing gerarchico: Il mobber è in una posizione superiore rispetto alla vittima: un dirigente, un capo reparto, un capufficio. Questo tipo di mobbing comprende tutti quegli atteggiamenti riconducibili alla tematica dell’abuso di potere, cioè dell’uso eccessivo, arbitrario o illecito del potere che un ruolo professionale implica.
• Bossing o mobbing strategico: l’attività è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi, che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo. E’ prassi frequente nelle imprese che hanno subito ristrutturazioni, fusioni, cambiamenti che abbiano comportato un esubero di personale difficile da licenziare.
• Mobbing orizzontale: è quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per motivi etnici, religiosi, sessuali etc.
Patolgie della vittima
Questo odioso fenomeno del mobbing, può rappresentare per la vittima un grave problema, non solo lavorativo ma anche sociale e familiare e, soprattutto può avere gravi ripercussioni sulla salute: la patologia psichiatrica più frequentemente associata al mobbing è il disturbo dell’adattamento; esso si compone di una variegata sintomatologia ansioso-depressiva come reazione all’evento stressogeno.
Fra le conseguenze rientrano la perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. Inoltre il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono i disturbi della socialità: nevrosi, depressione, isolamento sociale e, suicidio in un numero non trascurabile di casi.
Attualmente in Italia non esiste una legge anti-mobbing, pertanto non è configurato come specifico reato penale a sé stante. Per quanto riguarda l’Europa, esiste una risoluzione del Parlamento europeo sul mobbing sul posto di lavoro (2001/2339) che rappresenta uno dei primi riferimenti normativi in materia; tuttavia il nostro Stato non si è ancora adeguato a tale risoluzione, non essendo ad essa seguita una direttiva che imponga ai paesi membri una legiferazione sul mobbing.
Vi sono comunque delle norme nel nostro ordinamento che ci aiutano nella lotta al mobbing; una prima norma, che riguarda i diritti sacrosanti dell’uomo e assurge a rango di principio costituzionale (pertanto inviolabile) è rappresentata dall’art. 32 Costituzione che afferma: “la salute è un diritto dell’individuo e della collettività…”. Ad essa va affiancato il principio stabilito dall’art 40 Cost. secondo il quale
“l’iniziativa economica privata è libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Dal punto di vista civilistico l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro “di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori”.
Come dimostrarlo
Allo stato attuale, fino a che non si dimostri in modo inequivocabile che il lavoratore mobbizzato si sia ammalato di mobbing, la tutela in ambito penalistico (vale a dire la tutela nell’ambito delle lesioni) non ha concreta praticabilità. Nell’ipotesi (non rara) in cui si verivichi una lesione psico fisica da mobbing, quale è la norma penale di riferimento?
E’ importante, in primis accertare il nesso tra mobbing e danneggiamento della salute; successivamente bisogna accertare se la volontà del soggetto agente (il datore di lavoro o il collega) sia frutto di un dolo (ossia coscienza e volontà della condotta e dell’evento offensivo) o di una colpa (ossia sulla coscienza e volontà della condotta ma non dell’evento, che si realizza invece per negligenza, imprudenza, imperizia o violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline specifiche).
Pertanto il mobbing potrà sfociare in reati quali ingiuria (offesa all’onore e al decoro) o di diffamazione (offesa della reputazione pubblica) previsti dal codice penale e sanzionati come delitti contro l’onore. Ma anche in reati di lesione a seconda degli effetti che tali azioni hanno sull’individuo che le subisce: gli abusi lavorativi vengono di fatto equiparati a lesioni personali colpose. Possono giungere addirittura ad integrare ipotesi di omicidio colposo (art.589 c.p.) quando il datore di lavoro determini o rafforzi per colpa nel lavoratore mobbizzato, con la sua condotta reiteratamente vessatoria e/o ingiustificatamente discriminatoria e di emarginazione, una propensione suicidiaria, o reati di molestia e così via.
Come tutelarsi
Il discorso sul mobbing sarebbe ancora molto lungo e complesso per le sue implicazioni non solo legali ma anche e soprattutto sociali e familiari. Proprio per questo sarebbe necessario e urgente che il nostro Parlamento si decidesse una volta per tutte, a legiferare su un tema di così forte attualità e gravità. Nel frattempo non dimentichiamo che noi abbiamo un’arma molto forte che è quella della DENUNCIA.
Denunciare vuol dire far conoscere a tutti un problema e renderli partecipi; si può denunciare un fatto all’Autorità Giudiziaria (e questo è un conto) ma la denuncia può essere fatta anche con altri mezzi, ad esempio con una pubblicazione su un giornale, attraverso i sindacati, nelle riunioni aziendali, con un volantino appeso in bacheca etc etc.
L’importante è rompere il muro di omertà che fa sentire forte il datore di lavoro che ricorre al mobbing e, dall’altro riduce la vittima ad un essere piccolo piccolo, pieno di vergogna o peggio, di terrore e, incapace di reagire. Denunciare il mobbing, non è sempre facile perchè si ha paura di perdere il posto di lavoro, o di essere derisi e umiliati ancor più del normale; ma deve essere fatto!
Parlare di mobbing sul lavoro serve alla vittima a “liberarsi” ma serve anche alla collettività, serve a dare coraggio a chi, nella stessa situazione preferisce tacere e sopportare, piuttosto che intraprendere una battaglia con il capo. Serve come esempio per tutti e soprattutto come monito a molti dei datori di lavoro che credono di poter disporre dei propri dipendenti come fossero oggetti da spostare qua e la.
Siamo uomini e come tali, nati liberi e con una dignità, che nessuno e per nessun motivo deve mai negarci!
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Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 17/08/2018 n° 20774
Il mobbing costituisce malattia professionale indennizzabile da parte dell’INAIL.
E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20774/2018.